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Scheda
: 10.08.2005
: 12.07.2007
Il magazzino

Il magazzino era un locale, sufficientemente ampio, ricavato al primo piano dell’abitazione, che serviva per depositare le scorte dei cerali e di tutti i prodotti secchi, adoperati per l’alimentazione della famiglia colonica e degli animali; una minima parte era destinata alle semine. Nel magazzino era sistemata la bigattiera per l’allevamento del baco da seta, pertanto durante il periodo dei bachi, in maggio-giugno, ci si apprestava anche a tali mansioni. Inoltre in esso si effettuavano con appositi crivelli le operazioni di cernita dei cereali destinati all’alimentazione e alle semine. In tempi a noi più prossimi quest’operazione era eseguita dagli svecciatoi. Nel magazzino, quando le stanze da letto non erano sufficienti per tutti, si sistemavano i letti dei ragazzi.

Il capanno

Il capanno era tutto in muratura, oppure era costituito da pilastri in muratura per reggere la copertura e in pareti di tamponamento formate o da un intreccio di sole canne o cannicci, oppure da canne intonacate con un impasto di terra, paglia e buina, lo sterco dei bovini.
Il capanno serviva per il ricovero degli attrezzi, ma d’estate era utilizzato anche per essiccare il granturco e i legumi. Un angolo di esso spesso offriva spazio ad una rudimentale morsa, in maniera da poter confezionare gli attrezzi più comuni: manici di zappe, pale, forconi, vanghe, rastrelli, forche e scale a pioli. In esso si riponevano il biroccio, la seminatrice, l’estirpatore, l’aratro e il perticaro, l’antico aratro di legno utilizzato dai contadini anche in tempi recenti.
Nei poderi poco produttivi qualche mezzadro s’ingegnava a costruire anche capanne di terra, formate da fango impastato con paglia e coperte da un cono di sterpaglie a mo’ di pagliaio poggiante su un’intelaiatura di rami. Queste capanne avevano solitamente pianta circolare, sul tipo del pularo, per cui erano note come "giostre"; più raramente avevano pianta rettangolare. Servivano per il riparo degli attrezzi, come pollaio e conigliera. La tecnica di costruzione richiama impianti arcaici, risalenti ad epoche preistoriche. Tali costruzioni avevano una durata limitata; quando crollavano, si ricostruivano di nuovo nel giro di poco tempo.
Una procedura di fabbricazione molto simile alla precedente era usata per la capanna fatta di montanti in legno e cannicci, a pianta quadrangolare, con tetto a due spioventi.

L'aia

L’aia in dialetto è chiamata l’èra o l’ara, quindi altare, luogo sacro, perché vi si realizzavano le più importanti operazioni di raccolta. Era uno spazio di terra battuta, raramente con fondo in muratura, su cui avveniva, tramite i lavori di battitura, la cernita dei prodotti destinati all’alimentazione quali i cereali come grano, orzo, avena e granturco e i legumi come fava, favino, fagioli e ceci.
Prima dell’avvento delle macchine le operazioni di raccolta erano eseguite a mano: la mietitura con la falce e la battitura con il correggiato o con il calpestio ripetuto degli animali, dopodiché si effettuavano le operazioni di pulitura dei semi dalle scorie. Questa lunga e faticosa operazione richiedeva numerosa manodopera, perciò era richiesto un aumento di personale, che era reperito presso le famiglie dei casanolanti o di altri contadini della zona: questi ultimi erano ricambiati col baratto d’opera, invece gli altri erano ricompensati, il più delle volte, con prodotti in natura.
Durante questi lavori, per distrarsi e quindi alleggerire il peso della fatica, si colloquiava quasi ininterrottamente e s’intonavano canti - i canti sul lavoro - che in certi casi servivano anche a ritmare i movimenti. Il repertorio marchigiano contemplava canzoni narrative, liriche cumulative ed enumerative e i canti a batocco o alla lónga.
I canti a batocco, o alla longa, o alla montagnola, erano canti di sfottò per il capoccia o avevano per tema messaggi amorosi come i tre versi di questa strofa:
Vi do la bonasera caro amore,
vi do la bonasera caro amore.
Chissà se ci potremo arivedere!
I canti a batocco si eseguivano a due voci, una maschile e l’altra femminile; essi erano composti di strofe di tre versi, in cui il secondo era la ripetizione del primo. L’impianto vocale è molto simile al discanto medievale.
Alla conclusione di questi lavori, di solito, s’improvvisavano danze al suono di una fisarmonica. I balli più frequenti erano il saltarello e la furlana.
Sull’aia, alla fine dell’estate e all’inizio dell’autunno, si provvedeva anche alla gramolatura della canapa e del lino per ricavarne le fibre tessili, necessarie per la tessitura delle tele fatte in casa.
Intorno all’aia si formavano i pagliai per la conservazione dei foraggi secchi: fieno, paglia e strame. Erano anche situati attorno alla casa il pozzo, l'orto, il gabinetto e il letamaio.

I pagliai e il pularo

Un modo molto economico ed altrettanto efficiente per conservare i foraggi era il pagliaio. Intorno al metulo o mutulo (dal latino métula: il palo conficcato nel terreno per segnalare l’inversione di marcia nelle gare di corsa) si sistemava il foraggio o la paglia, cercando di pressarli il più possibile intorno al metulo. La grossezza del pagliaio variava a secondo della quantità di foraggio da accumularvi.
Il diametro di base poteva raggiungere anche quattro o cinque metri e oltre; la stessa misura poteva svilupparsi in altezza. La foggia era modellata sulla forma di una pera. Oltre la punta svettava la sommità del metulo, la quale rimandava al gambo di tale frutto. Il pagliaio, all’apice, si riduceva ad una settantina di centimetri di diametro ed era protetto dalla croja, una corona circolare fatta di frasche, all’interno della quale era pressato del terriccio per non far filtrare l’acqua piovana all’interno.
I pagliai venivano "affettati" un po' per giorno, torno torno, usando él tajafien, il tagliafieno, una grande lama triangolare coi lati affiliati, maneggiabile con un corto manico di legno, salendo quando era necessario su una scala.
Il pularo era invece un ricovero per pula od altri scarti secchi come foglie e altro. Come il pagliaio aveva forma circolare e al centro vi era piantato il metulo; invece lungo la sua circonferenza erano sistemati dei montanti di legno superiori ai due metri, dai quali partivano delle travi che erano fissate al metulo. Sopra a quest’armato si sistemavano dei rami, da qui partiva la copertura, a mo’ di pagliaio, fatta in genere con strame. I vuoti della parete tondeggiante erano tamponati con canne incastrate a del filo di ferro teso da un montante all’altro. Chiudeva l’ingresso del pularo una porta fatta anch’essa di canne, incastonate su un telaio di legno.

Gli incontri

La maggior parte di questi ambienti, adibiti ai lavori più vari, era anche testimone d’incontri fra le persone della zona, tutte unite da vincoli d’amicizia e di lavoro.
Così la cucina si trasformava in luogo di ritrovo durante le lunghe notti d’inverno; lo stesso magazzino, nel periodo di carnevale, diventava locale da ballo. Presso certe abitazioni, dove scarseggiava la riserva di legna da far ardere sotto il camino, le veglie si tenevano nella stalla dei bovini.
Durante questi incontri, che avvenivano di solito casualmente, gli argomenti di colloquio erano soprattutto concentrati sull’esito dei raccolti, sull’andamento e sulle nascite del bestiame, sulle qualità delle sementi, sulla macellazione del maiale, sulle festività, sulle previsioni del tempo.
La meteorologia, ad esempio, era basata sui giorni contarecci, i primi ventiquattro giorni dell’anno, su San Paolo dei Segni, il venticinque di gennaio, su certi malori che si manifestavano in ogni fase di cambiamento del tempo e sull’umore degli animali.
Con la leva militare obbligatoria, avvenuta subito dopo l’unità d’Italia, i giovani coscritti alla fine della lunga ferma chissà quanti fatti e cose avevano da raccontare alla stragrande maggioranza delle persone, che non si erano mai allontanate dal proprio ambiente!
Oltre agli episodi di cronaca di guerra o di momenti di vita più o meno avventurosa, si recitavano le liriche di Odoardo Giansanti, poeta dialettale pesarese (Pesaro 1852-1932) detto Pasqualón, e si narravano racconti fiabeschi, in cui il protagonista era di solito il debole, che riusciva con la propria astuzia ad aver ragione sul potente. L’allegoria è più che evidente: il debole, spesso descritto come goffo ed impacciato, rappresentava il contadino, scarpe grosse e cervello fino, mentre l’antagonista prevaricatore e spavaldo, il padrone. Così come nella fiaba dei tre fratelli: Mangano, Tangano e Ciuffolo, oppure in Gianni Benforte, in lotta contro il gigante. Si raccontavano anche fatti accaduti a persone poco furbe: questi episodi erano volutamente alterati ed ingigantiti per ironizzare sulla dabbenaggine dei protagonisti e garantire, in tal modo, il divertimento. E’ il caso, ad esempio, della Polenta nel pozzo di Corinaldo e d’altri fatti di dabbenaggine, riferiti agli abitanti di questo paese. Durante le veglie invernali c’era anche il modo di intrattenere i più piccoli, e non solo questi, con indovinelli, scioglilingua e brevi testi rompicapo.










Capanna e attrezzi vari. Valgenga a Cartoceto.
Luciano Poggiani

Capanna di legno a Cartoceto.
Luciano Poggiani

Capanno per attrezzi, annesso alla casa colonica della famiglia Barbadoro – Comune di Fossombrone, Località San Martino del Piano n° 62, Vocabolo Molino Nuovo.
Emilio Pierucci

Orto e pozzo a Cartoceto.
Luciano Poggiani

Fienile. M.Martello, presso il Santuario della Madonna delle Stelle.
Luciano Poggiani

Fienile. M.Martello, presso il Santuario della Madonna delle Stelle.
Luciano Poggiani

Casa colonica e sue pertinenze. Dintorni di Fossombrone.
Luciano Poggiani

Aia con pagliaio. Valgenga a Cartoceto.
Luciano Poggiani

Capanna e pozzo a Centinarola di Fano.
Luciano Poggiani