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Scheda
: 10.08.2005
: 12.07.2008

L'esperienza tramandata attraverso i secoli avevano reso abili anche i muratori che edificavano le case coloniche: fabbricati isolati nati anche nella nostra valle intorno al XVII e XVIII secolo quando cessò il pericolo delle razzie da parte delle bande di soldati di ventura. In precedenza i contadini e i raccolti vivevano protetti nei borghi e nei castelli. Sebbene la nostra terra non sia mai stata particolarmente fertile - in quanto composta da argilla associata a calcare - il suo modesto reddito non ha mai influito negativamente sulla qualità delle abitazioni rurali.

Il proprietario del fondo agricolo si preoccupava che il contadino fosse invogliato ad accettare la mezzadria e per questo spesso offriva un'abitazione decente e funzionale.

Questa "edilizia rurale spontanea" è migliorata qualitativamente nel tempo in funzione delle necessità rurali, delle maggiori esigenze delle famiglie che l'abitavano, ma soprattutto dagli agricoltori che diventavano proprietari del terreno.

La casa era a pianta rettangolare suddivisa su due piani ed era costruita con materiale del luogo erano tutte in mattoni, le travi del solaio e del tetto erano di legno di quercia, i coppi in terra cotta. La più vicina fornace era quella di Allegrezza a Cesano il cui titolare disponeva anche di alcuni terreni nei quali prelevava l'argilla.

Le case erano normalmente costituite da un piano terra dove c'era la stalla ed altre stanze utili per deposito di foraggio tritato e la cantina; un piano rialzato per le camere da letto e la cucina; un magazzino in soffitta, che serviva per depositare molte cose: il grano da seme e parte di quello da macinare, altre sementi tra cui le fave, ceci e cicerchia, attrezzi da lavoro, gli insaccati ottenuti dalla "pàcca del purcbétt", l'olio in damigiane, i "pumdòr" appesi alle travi per il condimento della pasta, i sacchi della farina, ecc.

L'eccessiva prolificità dei mezzadri - inizialmente bene accolta in quanto portava un aumento delle braccia dedite al lavoro - comportò però, con il passare delle generazioni, l'inadeguatezza degli ambienti: divenuti piccoli per famiglie così numerose. Nelle camere da letto arrivarono a dormire fino a 8/10 persone, e così, dove la redditività del podere lo permetteva, furono costruite ulteriori stanze. Queste erano spesso abbarbicate alla costruzione centrale, tanto da arrivare anche a formare un piccolo agglomerato abitativo. Vi trovavano alloggio più famiglie apparentate tra loro, le quali vivevano il quotidiano come in una comune.

Questi fabbricati - abbandonati dopo la seconda guerra mondiale a causa della crisi agricola e dello sviluppo industriale - vuoti, diroccati e privati dei loro caratteristici pagliai, sono rimasti a testimonianza di tre secoli di civiltà contadina.

La casa, isolata nei campi, era spesso posta su un'altura, in modo da controllare il podere. L'esposizione solare e la disponibilità dell'acqua erano essenziali sia per gli uomini che per le bestie. La costruzione riuniva in un unico complesso tutti gli ambienti e quelli di servizio erano destinati alla produzione agricola. A quei tempi il contadino si muoveva in un contesto di autosufficienza per cui la produzione riguardava i cereali, le viti, gli ulivi, la frutta, gli ortaggi e l'allevamento del bestiame. Di conseguenza il fabbricato doveva essere funzionale al governo e al ricovero dei prodotti. Le stalle e la cantina erano al piano terreno, la cucina e la camere al primo piano.

Prima dell'arrivo della debole corrente elettrica la cucina e gli altri vani si illuminavano con le lampade a petrolio.

Se diamo uno sguardo alla routine giornaliera, notiamo che la grande cucina è il centro dei rapporti della famiglia patriarcale ed è la stanza attigua alle camere da letto. Il camino è il cuore della casa. Serve per cucinare e per riscaldare con le braci anche gli altri vani, ma ha anche funzione di salotto, dove al calar del sole si ritrova la famiglia per ascoltare i vecchi che raccontano, parlano delle gesta degli avi e spesso di fantastiche leggende intimorenti. A tarda sera i bambini spauriti favoleggiano tra loro, raggomitolati sotto le coperte dell'unico letto, correndo con la mente tra i racconti reali e quelli fantastici. Attorno al camino siede spesso pure il fidanzato che è venuto a trovare la ragazza di casa. Ha camminato scalzo per diversi chilometri e si è messo le scarpe, che teneva a tracolla, poco prima di entrare. Allora si diceva che "è andato a fa' l'amore"; oggi questa frase ha un significato più etimologico.

Le camere sono poste sopra la stalla per beneficiare del calore delle bestie. Le finestre sono piccole per limitare l'accesso del caldo o del freddo, ma le mura sono spesse e solide.

Una scala a pioli conduce al soffitto usato come ripostiglio e in molti casi adibito anche all'allevamento dei bachi da seta. Tra i vani accessori del piano terra c'è il forno a legna che serve per cuocere il pane una volta per settimana. Grandi file di circa due chili ciascuna il cui profumo si è perso nei ricordi. Il pane è il principale alimento e l'unica fonte di apporto di calorie. La cosa che più affascina tuttora gli architetti sono le scale esterne di quelle case che danno accesso al primo piano e cioè alla cucina. Queste sono attaccate alla parete esterna opposta dell'entrata delle stalle. Sono protette e abbellite da un muretto laterale che serve come poggia mano. Davanti alla porta della cucina questa piccola barriera si trasforma in un piccola loggia coperta.

Un grande spazio frontale determinava in queste costruzioni l'aia, con a lato i pagliai, che fungevano da asilo per il cane, per le uova delle galline e sovente da pied-à-terre per amori fugaci.

Il podere da coltivare raramente superava i 10 ettari. D'altro canto per arare con le mucche un ettaro in erta collina ci volevano dai quattro ai sei giorni ed è faticoso tenere l'aratro premuto sulla terra. Il terreno veniva allora coltivato in virtù della necessità dell'autosufficienza e quindi negli stessi appezzamenti convivevano colture diverse. Le viti erano allineate in spazi molto ampi, in modo da permettere la coltivazione dei cereali o altro tra i filari. Non erano sostenute come oggi da pali di cemento e fili di ferro, ma bensì abbarbicate sul pioppo (acero campestre) i cui rami servivano a sorreggere i tralci. Il pioppo veniva defogliato a mano, per meglio permettere al sole di maturare i grappoli e, le foglie raccolte, venivano usate come mangime per le bestie. (Antica usanza fin dall'epoca romana che fece stupire il filosofo francese Montaigne il quale nel suo viaggio in Italia rilevò questo strano paese dove le mucche mangiano gli alberi).

Sempre lungo i filari si alternavano vari tipi di piante da frutta o di ulivi. I bordi delle strade erano costeggiati da alberi di gelso, le cui foglie servivano per l'allevamento del baco da seta: industria fiorente nelle nostre contrade. I campi privi di viti erano disseminati da numerose querce, che oltre a fornire ghianda per i maiali e legname da costruzione, servivano come ristoro ombreggiato nei caldi pomeriggi estivi. Questi alberi secolari che punteggiavano le nostre colline sono stati successivamente abbattuti con l'avvento del trattore: disturbavano il percorso lineare dell'aratro motorizzato.

L'abbondanza del raccolto dipendeva solo da Dio e per questo si edificavano piccole edicole nelle strade lungo i campi (le madonnine) e ogni terreno aveva la sua piccola croce, magari fatta di canne. Passando davanti a quella semplice raffigurazione del crocifisso ci si voltava imploranti, con la speranza che il Padre buono proteggesse le messi dalle intemperie.

Tratto da: L'eco del Cesano giugno 2006 - Giampiero Buratti