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Scheda
: 01.01.2005
: 14.08.2005

Il mestiere di mugnaio, esemplificato da Carlo Ginzburg in "Il formaggio e i vermí", si trasmette per generazioni e generazioni all'interno della famiglia, la quale è anche depositaria di secoli di astuzie, tese ad ingannare il cliente, che a sua volta è estremamente diffidente del «molinaro». Nel mulino Patregnani sul Cesano, c'è ancora un Vinnaco (nome per altro assai diffuso nelle campagne marchigiane, che ricorda il San Vinnaco, ossia il monaco che - secondo la tradizione - avrebbe inventato la macina), con alle spalle la storia di una famiglia lì da sempre e un mestiere tramandato di padre in figlio; un padre-padrone che «si permetteva di riprenderci per una macina bilanciata male ascoltandone il rumore dalla lontana cucina; ma quello che sappiamo lo dobbiamo a lui come la scelta dei tronchi di quercia da cui prendevamo il marullo o merullo (il midollo del tronco), come chiamiamo nelle nostre campagne la parte più dura della quercia da usarsi per i meccanismi a diretto contatto con l'acqua. Una corretta regolazione della macchina era infatti importante per ottenere un buon prodotto lavorato». Le due macine (letto e corrente) dovevano esere regolate «giuste», cioè perfettamente complanari. Per fare questo si agisce sulla ralla che fa da perno al fusello: «di sopra si mette uno che dice ralla avanti, oppure ralla indietro, mentre una canna posta al centro dell'albero indica, prima di posare la macina, la sua verticalità rispetto al piano di rotazione di questa». Il carattere popolare del mulino a palmenti, oltre al rapporto strettamente funzionale con la vita delle campagne, sta nell'essere stato per secoli luogo di trasmissione culturale e di scambio di informazioni. Un detto nell'Osimano icasticamente afferma: «Grano di Montetorto, macina di San Polo, vino di Montepolesco», quasi a spiegare quanto un buon mulino abbia spazio nella cultura del quotidiano.










Interno del Mulino Bonci a Fossombrone.
Giorgio Roberti